Costruire giusto, non solo bello
A colloquio con Ambra Piccin, l’architetto che ha ridefinito l’eleganza alpina a Cortina, tra rispetto per la tradizione e visione sostenibile
Incontriamo l’architetto Ambra Piccin in occasione dell’uscita del suo libro “Architetture Alpine a Cortina – Tra eleganza e tradizione montana”. È stata la prima donna ad aprire un suo studio di architettura a Cortina, nel 1991, facendolo diventare in trent’anni il più grande e attrezzato della zona. Il suo stile è riconoscibile non solo sulle Alpi ma anche in città come Roma e Milano, grazie a un perfetto equilibrio tra il fascino classico della montagna e un’eleganza moderna e funzionale
Architetto Piccin, lei è stata una pioniera, la prima donna architetto ad aprire uno studio a Cortina. Com’è stato quel percorso?
Quando ho aperto il mio studio a Cortina, ero consapevole di muovermi in un contesto fortemente maschile, non solo per il tipo di committenza, ma anche per l’approccio culturale all’edilizia di montagna. In un certo senso, sì, è stato un percorso pionieristico: non c’erano modelli femminili locali a cui ispirarsi, e molto spesso ho dovuto farmi strada dimostrando con i fatti — progetto dopo progetto — che la sensibilità non è una debolezza, ma una risorsa progettuale. All’inizio non è stato semplice: c’era diffidenza, e talvolta persino resistenza. Ma con il tempo, quella che sembrava un’anomalia è diventata un’identità. Oggi posso dire che essere una donna architetto in montagna ha significato, per me, portare uno sguardo diverso: più attento all’abitare, più sensibile alla relazione tra interni ed esterni, tra materiali e memoria. È stato un percorso faticoso, sì, ma profondamente autentico. E se riguardo indietro, non cambierei nulla.
Il suo studio è oggi un punto di riferimento. Qual è il segreto di questa longevità?
Credo che la longevità non sia mai frutto del caso. Nel mio lavoro, ho sempre cercato coerenza: tra progetto e luogo, tra estetica e funzione, tra materiali e vita quotidiana. Il mio studio è cresciuto nel tempo perché non ha mai inseguito tendenza del momento, ma ha coltivato una visione. Non c’è un vero ‘segreto’, se non forse la capacità di ascoltare: ascoltare i luoghi, le persone, i cambiamenti. Un progetto funziona quando è radicato: nel territorio, nelle esigenze reali di chi lo abita, nella tradizione che non viene replicata ma reinterpretata. E poi c’è un altro elemento, che per me è fondamentale: il legame con gli artigiani. Lavorare fianco a fianco con chi conosce il legno, la pietra, la luce di questa valle, significa non perdere mai contatto con la realtà. Forse è questo il vero segreto: essere radicati e allo stesso tempo aperti. Restare fedeli a se stessi, ma mai statici.
Cortina ha celebrato il suo lavoro con la presentazione del volume. Cosa ha significato per lei?
È stato un momento molto emozionante, perché non si trattava solo di celebrare dei progetti, ma di raccontare un percorso umano e professionale dentro e con Cortina. Questo libro raccoglie anni di lavoro, di scelte spesso controcorrente ma sempre rispettose, di dialoghi profondi con il paesaggio, con la storia delle case ampezzane, con chi le vive. Vedere questo percorso riconosciuto dalla mia comunità è stato toccante. Perché il lavoro dell’architetto è, alla fine, un lavoro invisibile: quello che si costruisce deve sembrare naturale, inevitabile, quasi sempre ‘già lì’. E invece dietro c’è dedizione, ricerca, a volte anche fatica. Questo volume ha dato voce a tutto ciò. E ha portato il mio lavoro fuori dallo studio, dentro un racconto condiviso.
Questo volume raccoglie trent’anni di progetti. Qual è il filo conduttore che li lega?
Il filo conduttore, se guardo indietro, è sempre stato il dialogo: con la materia, con il paesaggio, con le persone. Ogni progetto nasce da un ascolto profondo. Non ho mai pensato l’architettura come un gesto autoreferenziale, ma come un atto di relazione. Che si tratti di una casa nel bosco, di un attico in centro, di un fienile da trasformare, ciò che cerco è sempre una coerenza tra forma, funzione e identità del luogo. Un altro elemento che lega questi trent’anni di lavoro è la centralità dell’artigianato: non come decorazione, ma come linguaggio. Collaborare con mani esperte, con chi conosce il legno, il ferro, la pietra, significa restare connessi a una tradizione viva. E infine c’è la luce. Tutti i miei progetti partono da lì. Dalla luce naturale, dalla sua capacità di modellare gli spazi, di dare ritmo alle superfici. Il libro racconta questo filo invisibile: un’architettura che non vuole gridare, ma durare.

Nella sua opera si parla molto del suo legame con gli artigiani locali. Quanto è importante questa collaborazione?
È fondamentale. Senza gli artigiani locali, molti dei miei progetti semplicemente non esisterebbero. Non intendo solo a livello tecnico, ma proprio come identità. Ogni falegname, ogni fabbro, ogni artigiano con cui lavoro porta con sé un sapere che non si impara nei manuali: è un sapere fatto di esperienza, di sensibilità, di memoria del territorio. Per me il progetto non finisce sulla carta. Si compie nel cantiere, nel dialogo quotidiano con chi traduce un’idea in materia. Questa collaborazione non è mai gerarchica, ma orizzontale. Spesso sono proprio loro, gli artigiani, a trovare soluzioni che io non avrei immaginato. Lavorare con loro significa anche rispettare i tempi lenti del fare bene, della cura del dettaglio. È una scelta che richiede pazienza, ma restituisce valore. E poi c’è un’altra cosa: ogni volta che un artigiano mette le mani su un mio progetto, lascia una traccia. È come se la casa avesse più voci, più storie dentro. Questo, per me, è costruire davvero.
Questa sua pubblicazione è anche una proposta per un futuro più sostenibile. Cosa significa per leisostenibilità in architettura?
Per me la sostenibilità non è uno stile, né una moda. È una responsabilità. In architettura significa progettare in modo che ciò che costruiamo oggi abbia ancora senso domani, senza consumare più risorse di quelle necessarie, senza imporre, ma ascoltando il contesto. Sostenibilità è scegliere materiali locali, ridurre gli sprechi, recuperare dove possibile, ma anche creare spazi che durino nel tempo, che non debbano essere rifatti dopo pochi anni. È un tema ambientale, certo, ma anche culturale. Le case non sono oggetti: sono organismi che vivono, cambiano, respirano con chi le abita. E se un progetto è davvero sostenibile, deve poter accompagnare la vita di chi lo abita senza forzature. In questo senso, il libro non è solo una raccolta di progetti: è anche una riflessione su un modo di abitare la montagna, e più in generale il pianeta, con rispetto, misura e intelligenza. Non basta costruire bello: bisogna costruire giusto.
A chi è dedicata quest’opera?
È dedicata a chi crede nel progetto come atto di cura. A chi sceglie la qualità silenziosa, la bellezza che non ha bisogno di ostentare. Agli artigiani che ogni giorno trasformano le idee in materia viva. Ai committenti che si sono fidati, anche quando la strada sembrava meno semplice. E poi, naturalmente, a Cortina: non come cartolina, ma come luogo vero, con la sua storia, i suoi contrasti, la sua luce. Questo libro è un gesto di gratitudine. Per tutto ciò che mi ha formata, per le sfide che mi hanno spinta a crescere, per le persone che hanno camminato con me in questi trent’anni.
Valentina Avogadro