Dal cuore del porto di Civitavecchia, le narrazioni di chi parte e di chi torna si connettono, svelando come il viaggio in mare sia un ponte tra ciò che lasciamo e ciò che sogniamo di trovare

C’è un’energia speciale nell’aria di un porto, un’elettricità fatta di addii che non vogliono finire e di inizi che fremono per cominciare. Sul molo di Civitavecchia, questa energia è quasi tangibile. Sa di caffè e di salsedine, di speranze e di nostalgia. Al di là del vetro, una nave Grimaldi non è solo un mezzo di trasporto, ma una promessa che galleggia sull’acqua: la promessa di un tempo diverso, più lento, più vero.

Lo sa bene Chiara, con i suoi occhi che brillano di futuro e un biglietto per Barcellona. Per lei, neolaureata, questa nave è un rito di passaggio. “Potrei prendere un aereo, certo. Ma ho bisogno di questo tempo,” sussurra, come a confidare un segreto. “Ho bisogno di sentire la terra che si allontana piano piano, di dare alla mia anima il tempo di raggiungermi. È il mio modo per onorare ciò che lascio e per accogliere con coraggio ciò che verrà”. Il suo è un viaggio che nutre l’intelligenza e anche il cuore, un respiro profondo prima di un grande tuffo nella vita.

Poco più in là, una famiglia costruisce un ricordo. Marco e Valentina hanno spento i telefoni. Il loro lusso più grande, oggi, è il tempo. Il loro bambino, fa domande, osserva le onde, ride. “Ci siamo accorti che correvamo sempre,” racconta Marco, “ma non stavamo andando da nessuna parte. Qui, fermi, ci stiamo ritrovando“. Vanno a Tunisi, ma il vero viaggio è questo: insegnare al proprio figlio non a guardare il mondo attraverso un filtro, ma a spalancare gli occhi sulla sua meraviglia, a sentire il vento e ad assaporare la libertà.

E poi ci sono sguardi che non hanno bisogno di parole. Luisa e Antonio mano nella mano. Ogni anno, questo viaggio verso la loro Sardegna è un ritorno a casa, ma soprattutto un ritorno a se stessi. “Ti ricordi la prima volta, Antò?” chiede lei, e nella sua voce c’è un mondo intero. Lui sorride. Come potrei dimenticarlo. Era il nostro ’75. C’era una canzone di Battisti alla radio, e tu, con quel tuo vestito a fiori… ti giuro, mi sembrò che avessi il mare negli occhi”. Il loro non è un tragitto, è la celebrazione di una vita, con il mare come complice silenzioso di un amore che ha la stessa forza e la stessa pazienza delle onde.

Ma c’è un’altra anima su questa nave, un’anima instancabile e concreta. La rivela Lorenzo, un autotrasportatore con il volto segnato dal sole e dagli orizzonti. È lui a conoscere il cuore d’acciaio della nave. “Tutti guardano i ponti con le piscine,” dice con un sorriso sornione, “ma la vera magia avviene qui sotto. Ogni camion che vedi qui è una ferita in meno per le nostre autostrade, è fumo che non respiriamo. È un modo silenzioso per prendersi cura della nostra terra, per lasciarla un po’ meglio di come l’abbiamo trovata“. Nelle sue parole, la sostenibilità smette di essere un concetto astratto e diventa un gesto d’amore.

Quando la sirena suona, il suo canto profondo non fa tremare solo i vetri, ma anche i cuori. In quel suono, tutte queste vite si uniscono. La studentessa, la famiglia, gli amanti di una vita, il lavoratore del mare. La nave si stacca dal molo, portando con sé non solo persone e merci, ma il bene più prezioso di tutti: l’umanità, con le sue storie, i suoi sogni e la sua instancabile ricerca di un orizzonte più pulito e di un tempo più gentile.

Valentina Avogadro